Prima della rivoluzione

di Marco Scotini

Sassuolo. Borgo Venezia. Circolo Alete Pagliani.
Neppure un indirizzo, piuttosto un semplice schema d’orientamento: una città, un quartiere, un punto di stazione certo, conoscibile, tra tutti quelli possibili. Un luogo però che non appena raggiunto si scopre occupato da molteplici fantasmi, avvolti nell’anonimato dello spazio abitato, pronti per essere evocati non dai resti di una storia perduta o per sempre passata ma da qualcosa di ancora presente e fortemente inciso tra le maglie urbane, nei nomi delle strade, nei gesti della gente.
Via Monchio, via Costrignano, via Manno, via Marzabotto, via Gabriella degli Esposti sono - nell’evidenza della toponomastica - luoghi di stragi, vittime di rastrellamenti, tratti di una storia comune dolorosa e “orgogliosa”, frammenti di un grande discorso che da oltre cinquant’ anni ci è noto come Resistenza.
Come dice Michel de Certeau, i luoghi sono “racconti in attesa” e Borgo Venezia è, forse, qualcosa di più: è anche un racconto “in azione” entro lo spazio dell’enunciazione, dove la storia (quella storia) viene continuamente scritta e riscritta dai suoi stessi protagonisti ancora superstiti. Qui dove la Resistenza non è solo memoria, ma tuttora vissuto ordinario affidato e condiviso da persone reali, concrete, con volti propri, proprie paure e valori da difendere, non c’è spazio per l’astratta rappresentazione, tantomeno per una valutazione a freddo della sua trasmissione, dell’analisi della sua gestione.

Questi corpi (le figure, i volti) che quotidianamente è possibile incontrare al circolo Alete Pagliani sono gli stessi ora ritratti da Gianmaria Conti, con T-shirt rossa e foto stampata sul petto, durante una strana parata. La scelta della posa è quella precaria e non ufficiale in cui la storia personale dell’autore incontra la Storia, la sua versione diretta, esperienziale, colloquiale. Ogni opera di Conti è infatti la messa in scena (fotografica, video, narrativa) di una “genealogia”. Non una sequenza lineare, diacronica e cumulativa della storia: piuttosto uno spazio circolare e ciclico, in cui siamo sempre ricondotti al punto di partenza. Non il grado zero delle origini, ma sempre qualcosa posto “tra” due o più eventi, cose e storie. L’evento attorno a cui è possibile - di volta in volta - rubricare è in questo caso la figura stessa dell’autore: da un lato la sua biografia privata, familiare e, allo stesso tempo, la sua dispersione. Perciò l’archivio fotografico, il catalogo o l’inventario diventano la forma più appropriata per tale operazione.
Gianmaria Conti procede, attraverso il recupero di immagini e frammenti di passato, per nuclei associativi concentrici: dalle memorie individuali, alle testimonianze familiari, ai documenti storici e sociali. Se “ Le sette settimane”(1998) presentavano la relazione affettiva originaria tra zia e autore, i sessanta volti di “Identità complesse” (2001) ne riproducevano, per dissolvenze incrociate, il nucleo parentale, fatto di padri e figli, di madri e fratelli. E non a caso l’ininterrotta sequenza circolare si apriva e si chiudeva con il ritratto stesso dell’autore: un sé “ritrovato” negli altri, nei suoi consimili ma, proprio per questo, irrimediabilmente compromesso, mai distinto e perciò sempre preso “tra” più processi di identificazione.

“Eravamo tutti uguali” non è altro allora che un tassello ulteriore di questo progetto o, meglio, l’anello, come quello di un tronco, più esterno. Il fenomeno della Resistenza vi figura più come spazio o teatro di eventi locali, personali, che come preciso momento della nostra storia civile recente: rappresenta infatti l’entroterra dell’autore, la terra modenese, i luoghi del suo paese, le sue figure. In tal senso si spiega anche il ricorso da parte di Conti alla precisa topografia urbana su cui ha articolato i tre poli espositivi del progetto.
Foto di sopravvissuti, interviste audio, documenti ufficiali sulle formazioni partigiane, voci off diffuse nello spazio tra i depositi e gli archivi, video, testimonianze manipolate, gadgets sulla rivoluzione, sono solo alcuni materiali del campionario di “Eravamo tutti uguali”, progetto in cui Gianmaria Conti cerca di mettere in scena, mixando realtà e immaginazione, una sorta di inconscio sociale e collettivo relativamente ad uno dei momenti cruciali della nostra storia recente e, tanto più, alla memoria locale del contesto sul quale si è trovato ad intervenire.

Lo sguardo di Conti è ora quello di chi pratica una sorta di archeologia urbana tra le rovine del presente, dopo la caduta dell’utopia, cercando di ricomporre non tanto il passato quanto l’uso, la strumentalizzazione, la rimozione che su quel passato sono stati operati. Dunque non uno scavo nei meandri della storia ma un’archeologia del contemporaneo.
Da sempre attento alla memoria individuale, alle testimonianze familiari e generazionali, che Gianmaria Conti attraverso il medium fotografico e i suoi noti palinsesti di immagini, cerca di recuperare, sovrapponendo volti e persone, fatti e paesaggi, con “Eravamo tutti uguali” è uno dei più complessi capitoli della nostra storia a fare la sua comparsa, a divenire oggetto di ricerca, desiderio e immaginazione. Certo, non una storia senza soggetti. Ma “memoria” non è un termine corretto per il lavoro di Gianmaria Conti o, meglio, risulta totalmente insufficiente e inadeguato. Non si tratta tanto di custodire e preservare un’identità individuale e collettiva, di recuperare all’arte il ricordo e il passato, cercando di sottrarlo alla tirannia dell’oblio e del tempo. Anzi attraverso la messa in scena “del tempo perduto” è il concetto stesso di individualità ad entrare in crisi, ad essere radicalmente sabotato. Come in molti artisti della più giovane generazione che fanno ricorso al documentario, alla catalogazione, alla fotografia, anche qui i frammenti della storia - sempre ostinatamente inventariati quanto alterati, manipolati, immaginati - sono lo strumento più efficace per la sua stessa decostruzione. La genealogia, per quanto arbitraria o personale, diventa allora l’unico modo per non mettere “fuori campo” la storia dal presente, le contraddizioni del passato.