Eravamo Tutti Uguali

di Francesco Genitoni

Sassuolo – sia detto senza retorica e campanilismi – potrebbe vantare una qualche primogenitura all’interno della storia della resistenza modenese. I soldati presenti all’interno del Palazzo Ducale al comando del generale Ugo Ferrero vanno annoverati tra i pochi esempi, in tutta Italia, di resistenza, da parte di militari, all’invasione tedesca, all’indomani dell’armistizio dell’8 settembre ‘43. Opposizione breve – a causa degli impari rapporti di forza e di armamento – ma significativa. Fu pagata con la vita del soldato Ermes Malavasi e del generale Ferrero che, deportato in un campo di prigionia in Polonia, venne ucciso da una SS nel corso di una marcia di trasferimento nel gennaio 1945.
I Sassolesi furono poi tra i primissimi – il 7 novembre 1943 - a salire in montagna. Nei primi tempi, in movimento tra paesi e vallate dell’Appennino reggiano e modenese, non mancarono i problemi di sopravvivenza e organizzazione, e nemmeno gli episodi tragici, come l’uccisione del tenente Stanzione e del primo comandante Giovanni Rossi. Il gruppo dei Sassolesi si rese protagonista di colpi ed azioni che coagularono intorno a loro giovani della montagna e della pianura, alimentando quella prima ondata resistenziale che troverà, nella proclamazione della “Repubblica di Montefiorino” del giugno ’44, un solenne coronamento.
Sassuolo potè essere protagonista di tutto questo per la sua posizione geografica nel pedemonte, ma anche per la presenza di quelli che sono stati definiti “gli uomini giusti”. Tra questi sicuramente Ottavio Tassi, lo “Zero Zero” appassionato animatore e guida della resistenza sassolese, Stefano Mussini, il tenente salernitano Ugo Stanzione, Giovanni Rossi, Giuseppe e Norma Barbolini, Cesare Gibellini “Girardengo”, Antonio Braglia, Gaudenzio Tagliati…
Buona parte di questi uomini abitavano o erano legati al quartiere operaio di Borgo Venezia. Qui si erano tenute riunioni, da qui partirono le prime spedizioni per strappare o imbrattare manifesti di minaccia e di guerra, per radunare armi, per raccogliere qualche finanziamento….
Non a caso il Circolo di Borgo Venezia è dedicato ad Alete Pagliani, uno dei ragazzi trucidati a Manno nell’ottobre del ’44, che qui era nato. E non a caso le strade nel cuore del quartiere sono intitolate a persone e luoghi della resistenza: Via don Pigozzi, Degli Esposti, don Minzoni, Rosselli, Staffette Partigiane… Via Montefiorino, Manno, Monchio, Santa Giulia, Costrignano… Nomi fondamentali nella mappa della resistenza modenese. Nomi che hanno segnato il destino del quartiere. Borgo Venezia infatti è rimasto più di altre aree urbane uguale a se stesso, come impigliato nella sua storia, e nella sua localizzazione. Sotto il terrapieno della ferrovia Sassuolo-Reggio Emilia. Chiuso tra il vecchio ponte, il letto paurosamente scavato e l’argine franante del fiume Secchia; tra il famoso frantoio ridotto a fantasma di se stesso; tra la scuola professionale dismessa, i capannoni e i muri della grande fabbrica; tra circonvallazioni e pedemontane sempre tumultuosamente trafficate…
Borgo Venezia non ha goduto di attenzioni particolari. Lo sviluppo urbanistico ed estetico sembrano avere privilegiato altre aree o quartieri. Sono invecchiate anche le strade che portano nomi che a molti, immigrati da altri paesi e altre storie, non ricordano persone e fatti conosciuti.
Ma nelle vene più intime del quartiere scorrono ancora ricordi netti. E la stessa volontà di continuare a capire, di ricordare, di precisare, di ribattere, perché quella storia, quei fatti, il sacrificio delle persone siano ancora utili oggi.
Con la provocatorietà e la libertà dell’artista, con le licenze concessegli dalla giovane età, Gianmaria Conti si infila sulla scena della Resistenza. Rimescola tutte le carte, di ieri e di oggi, senza curarsi delle vecchie regole, gioca con i nostri documenti e i ricordi, con la storia e le facce dei protagonisti non ricordati abbastanza o dimenticati.
Come ha scritto Marco Scotini, “Gianmaria Conti pratica una sorta di archeologia urbana tra le rovine del presente, dopo la caduta dell’utopia, cercando di ricomporre non tanto il passato quanto l’uso, la strumentalizzazione, la rimozione che su quel passato sono stati operati. Dunque non uno scavo nei meandri della storia ma un’archeologia del contemporaneo…”.
Dobbiamo essergli grati, a Gianmaria Conti. Ci ricorda che c’è ancora molto da dire, da capire, da scrivere e riscrivere su quei fatti e quegli uomini che hanno fatto qualcosa per noi, per affermare l’idea che eravamo, siamo, o potremmo/dovremmo essere ancora, tutti uguali.
Questa operazione tra storia e arte non vuole certo essere un punto d’arrivo. Ma uno spunto – usando una terminologia sportiva di moda - per una ripartenza, verso nuovi approcci, riletture più serene e rigorose. Per capire sempre meglio come sono andati davvero quei fatti. Perché la memoria non ci separi.