Cronaca di un divorzio

di Emiliano Gandolfi

È tutta una questione di misure. 20 piedi x 8 piedi x 8,5 piedi, un volume complessivo di 1.360 piedi cubici, ovvero 39 m3 - sono le misure che hanno cambiato i porti di tutto il mondo. Dalla Guerra di Corea, quando l’esercito americano inizia a sperimentare i primi container di metallo, la strada è breve verso una rivoluzione dei trasporti e del commercio globale. Nel 1956 Malcolm McLean, un piccolo imprenditore di Maxton, North Carolina, per la prima volta intuì la praticità a livello commerciale di trasportare i carichi direttamente assieme al contenitore e per questo si guadagnò il soprannome di "the father of containerization". Ma bisognò aspettare fino all’ottobre del 1970, quando dopo due anni di elaborazioni si arrivò a definire le dimensioni standard da parte del International Organization for Standardization (ISO). Gli stessi container presero il nome da questa organizzazione: container ISO; da quel momento navi, treni, camion e stazioni, porti e interporti di tutto il mondo furono adattati esclusivamente a questo sistema.

La rivoluzione era in qualche modo inaspettata. Negli anni Cinquanta, quando un economista della Harvard University, Benjamin Chinitz, predisse che l’impiego dei container avrebbe facilitato New York per la possibilità di trasportare merce prodotta a costi minori negli stati del sud, non si rese conto che la stessa tecnologia avrebbe reso anche l’importazione di prodotti dall’estero molto più economica . Con la diffusione del container e la rispettiva caduta dei prezzi dei trasporti, l’economia per la prima volta divenne realmente globale. La graduale liberalizzazione dei mercati rese possibile importare merce da qualunque parte della Terra e produrre in paesi nei quali il costo della mano d’opera è sensibilmente minore.

Oggi attraversare il porto di Rotterdam è una esperienza quasi mistica. Oltre 40 km di Transtainers, Gantry, Grappler Lift, Reach Stackers e altri marchingegni per scaricare e caricare le navi si muovono incessantemente, a velocità costante, e apparentemente senza nessuno che le comandi. Colline di polvere di carbone, montagne di container colorati, paesaggi interi di silos petroliferi collegati da migliaia di chilometri di tubi, cavi, ponti, luci, formano l’ossatura del porto più grande d’Europa, uno dei primi porti al mondo. Una immagine del tutto diversa da quella che doveva essere la città durante la sua ricostruzione post bellica, quando decine di migliaia di persone erano occupate instancabilmente a caricare e scaricare merci, ma anche a occupare nuovi quartieri costruiti frettolosamente nelle vicinanze per ospitare la persistente domanda di mano d’opera.

Negli anni della grande migrazione dalla campagna verso la città, il porto di Rotterdam era il vero cuore della città. Diversamente da Amsterdam, storicamente più ricca e dedita allo stoccaggio delle merci in attesa dell’incremento del loro valore finanziario, Rotterdam era la città della grande distribuzione, la porta d’Europa, una città di gestione del trasporto e di produzione, con i più grandi cantieri navali e sede delle prime grandi raffinerie, la Royal Dutch Shell, poi le altre, la Mobil, la BP, la Texaco. Il porto era un frenetico andirivieni di imbarcazioni, persone, merci; i racconti di deliziosi frutti tropicali raccolti dalla casse aperte sul molo, il costante mutare dello skyline con i profili dei transatlantici e la dolcezza delle prostitute del quartiere cinese, sono oggi soltanto ricordi fantastici di anziani nostalgici. Un passato quasi inimmaginabile nella algida ingegnerizzazione del porto attuale: l’immagine da Fronte del Porto, delle lotte di classe, o il più fascinoso e fantasioso immaginario alla Querelle de Brest, hanno lentamente lasciato il posto alla industrializzazione dei trasporti e alla crisi della grande industria.

In questo processo la città si è espansa fino ad inglobare la riva sud del fiume Mosa, poi ha annesso diversi piccoli paesi verso il mare - Rhoon-Poortugaal, Pernis, Hoogvliet, Spijkenisse, Brielle, Oostvoorne, Hoek van Holland, Maassluis e Vlaardingen -, alla ricerca di nuovi quartieri per la mano d’opera. Il porto infine è sfociato nel mare, ma non soddisfatto ha iniziato a costruire un primo e un secondo ampliamento nell’acqua: inizialmente Maasvlakte e attualmente, in costruzione, la nuova banchina di Maasvlakte2, ultima estensione costruita in mare aperto. Nel corso degli anni Sessanta e Settanta, Rotterdam diventa una delle destinazioni delle migrazioni europee, e in seguito delle migrazioni dalle ex colonie Olandesi - Suriname, Antille - e dalla Turchia, Marocco, Capo Verde. Questi sono anni a volte drammatici per l’evoluzione della città. Una società finalmente emancipata al suo interno, affrancata dai contrasti più evidenti con gli abitanti arrivati dalle campagne del sud del paese, si trova a dover ospitare lavoratori provenienti da culture aliene, che negli anni raggiungeranno il 45% della popolazione totale della città. I quartieri sul porto ospitano - nella loro tipica struttura Olandese, le case moderniste a quattro piani, gli appartamenti piccoli per nuclei famigliari ridotti - famiglie estese, magrebine e caraibiche. Con lo sviluppo della grande distribuzione, gli ex quartieri dei portuali rimangono defraudati dal reale motivo della loro collocazione. Il porto è sempre lì, ma trincerato dietro alti cancelli, il fiume occultato da montagne di container colorati.

La città si modifica profondamente. Affranca dal porto le banchine più prossime e sposta sulla riva meridionale il proprio centro amministrativo, con la speranza di ricongiungere quelle due metà a lungo separate dalle attività portuali. Il lungofiume è ora diventato sede di torri residenziali di lusso, soltanto gli interessi dei costruttori sono stati in grado di strappare qualche metro di prezioso terreno alla potente Port Authority, la società che gestisce le aree portuali. Progressivamente il porto diventa uno spettacolo meccanico astratto, del tutto avulso dalla vita della città, con il solo apparente ruolo di attrazione turistica. Migliaia di visitatori, affascinati dalla totale assenza di scala umana delle strutture portuali, dall’estetica metafisica, dalla bellezza sublime della macchina, affollano ogni anno le escursioni in barca all’interno del porto. Progressivamente Rotterdam si disgiunge dal suo porto, diventa una piccola estensione abitata a concludere oltre 40 km di macchine trasportatrici, gru e rientranze scavate per ricavare maggiore superficie di scarico. Per guadagnare visibilità la Port Authority ha pensato addirittura di investire sulla propria immagine e nel 2007 ha commissionato a sei architetti di fama internazionale uno studio su come il porto possa essere reso più attraente . Un chiaro paradosso, specialmente se si considera che l’attrattiva turistica del porto sta appunto nel fatto di non essere stato disegnato se non per fini utilitaristici. Una città e il suo doppio, l’antico motore propulsivo è diventato talmente ingombrante da aver quasi acquistato una vita a sé, un cuore separato dal suo corpo.

Mentre la città lavora incessantemente nel suo processo di costruzione post trapianto, innalzando giorno dopo giorno uno skyline più alto e metropolitano sulle rive della Mosa, i quartieri dove un tempo abitavano i portuali affrontano un lento e difficile processo di normalizzazione e di stabilizzazione economica. Piccole attività vengono aperte per soddisfare le esigenze di un mercato di prodotti stranieri, ma rimane forte il rischio di una progressiva marginalizzazione di interi quartieri della città, un tempo separati dal fiume e oggi dalla distanza culturale ed economica. Alcuni progetti, come Rotterdam Vakmanstad (Rotterdam SkillCity) di Dennis Kaspori e Jeanne van Heeswijk, mostrano un tentativo di investire in programmi culturali e sociali da portare avanti parallelamente ai progetti di rinnovamento urbano. La diffusione di “creatività artigianale” orientata ad abitanti provenienti da altre culture e la creazione di nuove opportunità imprenditoriali, si contrappongono alla esclusività del mercato globale .

Se il container ISO è stato probabilmente una delle cause del divorzio del porto di Rotterdam dalla sua città, il futuro prospetta nuove sfide. La sorprendente capacità di trasformazione e di adattamento alle leggi del mercato del porto ha lasciato la città indietro a dover fare i conti con quartieri dormitorio eretti per i suoi ex-dipendenti e con migliaia di persone che un tempo lavoravano nei suoi cantieri e che oggi devono reinventarsi una prospettiva. Come in ogni separazione, i figli, in questo caso i cittadini di Rotterdam, devono passare un periodo difficile; ma il lascito del porto è una eredità straordinaria: Rotterdam è una delle città più multietniche d’Europa, una metropoli moderna per vocazione e un laboratorio unico di coabitazione. La cultura Olandese ha mostrato in passato di saper affrontare con grande pragmatismo le sfide della modernità, oggi deve saper guardarsi dentro e accettare di portare avanti un progetto urbano realmente inclusivo. Questa volta la mercanzia più preziosa non arriverà su una nave proveniente dall’estero, ma dovrà essere elaborata con pazienza e determinazione nella pancia stessa della città.

Marc Levinson, The Box, How the Shipping Container Made the World Smaller and the World Economy Bigger (2006, Princeton Univ. Press.).

Haven van de Toekomst, www.havenvandetoekomst.nl, visitato il 30 Novembre 2008. In particolare degno di nota l’articolo di Wouter Vanstiphout, Lipstick on a Gorilla.

Per maggiori informazioni Rotterdam Vakmanstad: www.vakmanstad.nl; www.themaze.org; www.jeanneworks.net