Immersi nella città europa

di Stefano Boeri

1.Può apparire paradossale, ma nel momento in cui in Europa la città e lo spazio abitato sono prepotentemente tornati al centro dell’attenzione dei mass media, suscitando dibattiti sulla coabitazione etnica e religiosa, sulla sicurezza delle periferie, sulle nuove cattedrali del tempo libero, l’architettura europea ha toccato forse il punto più estremo di marginalità. La maggior parte delle riviste europee continua a disinteressarsi delle dinamiche concrete di costruzione del territorio europeo, alla sua evoluzione per sussulti individuali. Anche perchè centri commerciali, cinema multisala, capannoni, autolavaggi, infrastrutture viarie, villette a schiera, palazzine dilagano nello spazio urbano, ma restano assenti in quello delle pagine specializzate.
Eppure non è difficile intercettare il nuovo. Lo incontriamo in una qualsiasi foto satellitare dell’Europa, osservando la nebulosa di costruzioni che ha trasfigurato il profilo delle nostre città. O guardando su una carta i sommovimenti che ne scuotono la geografia, incuranti dei confini statali e delle “radure” naturali. L’Europa urbana si è in questi ultimi decenni enormemente dilatata. Mentre attorno alle grandi città si formavano immense masse pulviscolari, nel suo corpo nascevano conurbazioni reticolari che ricalcavano i distretti produttivi e le zone più dinamiche. Configurazioni instabili, dal profilo incerto, perché come accade per i fenomeni tellurici lo spazio europeo è scosso da sommovimenti composti da una miriade di piccoli spostamenti, piuttosto che da grandi correnti omogenee.

2. La moltitudine, l’aumento esponenziale degli oggetti edilizi e dei loro autori, è la forma che il nuovo assume nella nostra esperienza quotidiana. La percepiamo come un brusìo quando attraversiamo quel pulviscolo di piccoli edifici solitari e ammassati che costituisce il DNA di una città sempre più “larga” e diffusa nel territorio.
Ma il “nuovo” non compare solo dove lo spazio si dirada, nelle periferie, nella campagna urbanizzata. Scorre e si infiltra anche nelle zone centrali e negli isolati della città ottocentesca; disintegra antiche fortezze monofunzionali (i macelli, gli ortomercati, le grandi industrie), parcellizza lo spazio pubblico inondandolo con un commercio molecolare e mobile, gonfia a dismisura gli interni della città (abitazioni, showroom, contenitori ludici) mettendoli tra loro in connessione e trasformandoli in set televisivi. La moltitudine riscrive e suddivide lo spazio urbano europeo con una fitta punteggiatura, ma al contempo traccia una fittissima rete di relazioni; relazioni a distanza, intessute dai tragitti dei suoi cittadini sempre più mobili eppure sempre radicati nel luogo intimo della famiglia. La moltitudine spezzetta e insieme unisce, suddivide ed estende, svelando una società nella quale è enormemente aumentato il numero dei soggetti in grado di investire nello spazio e di costituirvi una propria nicchia.

3. Eppure la moltitudine non è caos. Uno sguardo da un altezza intermedia, quella di un piccolo aereo da turismo, ci mostra un arcipelago di recinti, isole, rette, areali, rizomi. Organismi spesso perfettamente funzionanti al loro interno, ma incuranti di dialogare con i loro vicini. Un numero ridotto di figure spaziali introverse e ripetute all’infinito, specializzate anche se ibride: la super-strada e i suoi svincoli, la zona produttiva e il suo recinto, il quartiere di villette e il campo sportivo, la strada-mercato e i suoi retri, il contenitore commerciale e il suo parcheggio. I sommovimenti che scuotono lo spazio europeo sono la somma di queste razionalità settoriali, che a loro volta condensano la moltitudine dei sussulti individuali che muove la città europea. Un arcipelago di sottosistemi decisionali, protagonisti di una competizione orizzontale che solo uno sguardo distratto continua a leggere secondo un modello gerarchico e piramidale. A ben guardare, porti, aeroporti, stazioni, zone industriali, distretti ludici, quartieri protetti, parchi a tema, sono gli attori di uno stesso gioco; ciascuno con le sue ragioni e le sue idiosincrasie, ciascuno con i suoi sogni di privatizzazione del territorio. Una società poliarchica, ha finalmente costruito un territorio a sua immagine e somiglianza dal quale emerge, dietro all’apparenza del caos, un eccesso di regole equivalenti.

4. Ma l’arcipelago urbano europeo non è solo una somma di recinti. La frammentazione dell’edificato, la compressione delle attività, la velocità degli spostamenti, unite al persistere di un forte radicamento nei luoghi della residenza, hanno trasformato l’Europa nella culla di nuove esperienze di vita urbana. Nascono di continuo spazi fluidi e luoghi autorganizzati, creati dall’immaginazione pragmatica di utenti-gestori per sperimentare nuove e sorprendenti associazioni. Al punto che oggi le architetture europee più innovative non riposano forse più nelle riviste; non nascono dalle politiche pubbliche sul territorio e dai grandi progetti urbani, ma dalle pieghe della vita quotidiana: nei chioschi mobili di Belgrado; nella sovversione di una “stecca” parigina da parte di una comunità asiatica; nelle capsule domestiche-produttive di Elche; nelle fiamme mobili di vita collettiva accese dai Rave-parties: nei “giardini” ad alta tecnologia che popolano le regioni alpine; in quel paesaggio spezzato eppure condiviso dove si riflettono le comunità tunisine di Mazara del Vallo e quelle siciliane di Tunisi, per citare solo alcuni dei casi che la ricerca USE1 ha iniziato a campionare.
L’Europa, prima di essere un continente è un’entità culturale; un’entità che ha costituito un suo spazio specifico, indipendentemente dai suoi cangianti confini geopolitici, caratterizzato dalla sedimentazione, dalla densità e dalla metabolizzazione delle tradizioni abitative esogene. Quella stessa Europa urbana che nel tempo ha inventato ed esportato nuovi dispositivi spaziali (a loro volta mutuati da altri mondi) come la corte, l’isolato, l’unità di vicinato, si trova oggi a fare i conti con l’esplosione nel suo territorio di dispositivi locali autorganizzati e non semplicemente “spontanei”. Innovativi, ma non sempre virtuosi. Invisibili perché privi di architetti che li promuovano e di critici che li raccontino.
Se davvero vogliamo restituire un’utilità sociale alla nostra professione, è a questi luoghi ricchi di energia e difficili da governare, piuttosto che alle occasioni celebrate dall’architettura colta, che dovremmo rivolgere più spesso il nostro sguardo.

1 Cfr. multiplicity, USE-Uncertain states of Europe, Skira, milano 2003

* una prima versione di questo testo è apparsa sulle pagine del supplemento domenicale del quotidiano finanziario “Il Sole 24 ore”.