Stato di eccezione

di Giorgio Agamben

Il sistema giuridico dell’Occidente si presenta come una struttura doppia, formata da due elementi eterogenei e, tuttavia, coordinati: uno normativo e giuridico in senso stretto – che possiamo qui iscrivere per comodità sotto la rubrica potestas – e uno anomico e metagiuridico – che possiamo chiamare col nome di auctoritas.
L’elemento normativo ha bisogno di quello anomico per potersi applicare, ma, d’altra parte, l’auctoritas può affermarsi solo in una relazione di validazione o di sospensione della potestas. In quanto risulta dalla dialettica fra questi due elementi in certa misura antagonistici, ma funzionalmente connessi, l’antica dimora del diritto è fragile e, nella sua tensione verso il mantenimento del proprio ordine, sempre già in atto di rovinare e corrompersi. Lo stato di eccezione è il dispositivo che deve, in ultima istanza, articolare e tenere insieme i due aspetti della macchina giuridico-politica, istituendo una soglia di indecidibilità fra anomia e nomos, fra vita e diritto, fra auctoritas e potestas. Esso si fonda sulla finzione essenziale per cui l’anomia – nella forma dell’ auctiritas, della legge vivente o della forza-di-legge – è ancora in relazione con l’ordine giuridico e il potere di sospendere la norma è in presa immediata sulla vita. Finché i due elementi permangono correlati, ma concettualmente, temporalmente e soggettivamente distinti – come nella Roma repubblicana nella contrapposizione fra senato e popolo o nell’Europa medievale in quella fra potere spirituale e potere temporale -, la loro dialettica – ancorché fondata su una finzione – può tuttavia in qualche modo funzionare. Ma quando essi tendono a coincidere in una sola persona, quando lo stato d’eccezione, in cui essi si legano e si indeterminano, diventa la regola, allora il sistema giuridico-politico si trasforma in una macchina letale.

Scopo di questa indagine – nell’urgenza dello stato di eccezione “in cui viviamo” – era di portare alla luce la finzione che governa questo arcanum imperii per eccellenza del nostro tempo. Ciò che l’ ”arca” del potere contiene al suo centro è lo stato di eccezione – ma questo è essenzialmente uno spazio vuoto, in cui un’azione umana senza rapporto col diritto ha di fronte una norma senza rapporto con la vita.
Ciò significa che la macchina, col suo centro vuoto, non sia efficace; al contrario, quel che abbiamo inteso mostrare è precisamente che essa ha continuato a funzionare quasi senza interruzione a partire dalla prima guerra mondiale, attraverso fascismo e nazionalsocialismo, fino ai nostri giorni. Lo stato di eccezione ha anzi raggiunto oggi il suo massimo dispiegamento planetario. L’aspetto normativo del diritto può essere così impunemente obliterato e contraddetto da una violenza governalmente che, ignorando, all’esterno, il diritto internazionale e producendo, all’interno, uno stato d’eccezione permanente, pretende tuttavia di stare ancora applicando il diritto.
Non si tratta, naturalmente, di riportare lo stato di eccezione nei suoi limiti temporalmente e spazialmente definiti, per riaffermare il primato di una norma e di diritti che, in un ultima istanza, hanno in esso il proprio fondamento. Dallo stato di eccezione effettivo in cui viviamo non è possibile il ritorno allo stato di diritto, poiché in questione ora sono i concetti stessi di “stato” e di “diritto”. Ma se è possibile provarsi ad arrestare la macchina, esibirne la finzione centrale, ciò è perché fra violenza e diritto, fra la vita e la norma non vi è alcuna articolazione sostanziale. Accanto al movimento che cerca di mantenerli a ogni costo in relazione, vi è un contromovimento che, operando in senso inverso nel diritto e nella vita, cerca ogni volta di sciogliere ciò che è stato artificiosamente e violentemente legato. Nel campo di tensione della nostra cultura agiscono, cioè, due forze opposte: una che istituisce e pone e una che disattiva e depone. Lo stato di eccezione è il punto della loro massima tensione e, insieme, ciò che, coincidendo con la regola, minaccia oggi di renderle indiscernibili. Vivere nello stato di eccezione significa fare esperienza di entrambe queste possibilità e tuttavia, separando ogni volta le due forze, incessantemente provarsi a interrompere il funzionamento della macchina che sta conducendo l’Occidente verso la guerra civile mondiale.

Se è vero che l’articolazione fra vita e diritto, anomia e nomos prodotta dallo stato di eccezione è efficace, ma fittizia, non si può, tuttavia, trarre da ciò la conseguenza che, al di là o al di qua dei dispositivi giuridici, si dia da qualche parte un accesso immediato a ciò di cui essi rappresentano la frattura e, insieme, l’impossibile composizione. Non vi sono, prima, la vita come dato biologico naturale e l’anomia come stato di natura e, poi, la loro implicazione nel diritto attraverso lo stato di eccezione.
Al contrario, la stessa possibilità di distinguere vita e diritto, anomia e nomos coincide con la loro articolazione nella macchina biopolitica. La nuda vita è un prodotto della macchina e non qualcosa che preesiste ad essa, così come il diritto non ha alcune assise nella natura o nella mente divina. Vita e diritto, anomia e nomos, auctoritas e potestas risultano dalla frattura di qualcosa a cui non abbiamo altro accesso che attraverso la finzione della loro articolazione e il paziente lavoro che, smascherando questa finzione, separa ciò che si era preteso di unire. Ma il disincanto non restituisce l’incantato al suo stato originario: secondo il principio per cui la purezza non è mai nell’origine, esso gli dà soltanto la possibilità di accedere a una nuova condizione.
Esibire il diritto nella sua non-relazione alla vita e la vita nella sua non-relazione al diritto signifca aprire fra di essi uno spazio per l’azione umana, che un tempo rivendicava per sé il nome di “politica”. La politica ha subìto una durevole eclisse perché si è contaminata col diritto, concependo se stessa nel migliore dei casi come potere costituente (cioè violenza che pone il diritto), quando non si riduce semplicemente a potere di negoziare col diritto. Veramente politica è, invece, soltanto quell’azione che recide il nesso fra violenza e diritto. E soltanto a partire dallo spazio che così si apre sarà possibile porre la domanda su un eventuale uso del diritto dopo la disattivazione del dispositivo che, nello stato di eccezione, lo legava alla vita. Avremo allora di fronte un diritto “puro”, nel senso in cui Benjamin parla di una lingua “pura” e di una “pura” violenza. A una parola non obbligatoria, che non comanda né proibisce nulla, ma dice soltanto se stessa, corrisponderebbe un’azione come mezzo puro che mostra soltanto se stessa senza relazione a uno scopo. E, tra le due , non un perduto stato originario, ma soltanto l’uso e la prassi umana che le potenze del diritto e del mito avevano cercato di catturare nello stato di eccezione.

Tratto da BOLLATI-BORIGHINGHIERI, 2003